Riceviamo questa lettera da Suor Giovanna Calabria, missionaria comboniana, che ci invia gli auguri di Natale riportandoci delle testimonianze da Gulu, Uganda, su come sia possibile superare l’odio e la violenza e costruire la pace.
Carissime e carissimi,
desidero iniziare con le parole di Papa Francesco “Preghiamo per la pace e ricordiamo che la vita è sacra e inviolabile. Scegliamo la vita.”
Quanto succede nel mondo ci porta a chiederci il perché di tanto odio e accanimento che sfociano in conflitti degradanti e che penalizzano in primo luogo gli innocenti. Sono domande inquietanti alle quali non c’è risposta che giustifica, è per me un urgente e incessante invito alla preghiera, alla supplica a Colui che è l’autore della PACE e che ci ricorda “VI LASCIO LA PACE. VI DO LA MIA PACE” (Gv.14,27). Papa Francesco ci ricorda che per portare la pace dobbiamo prima averla noi e per raggiungerla dobbiamo rivolgerci a LUI chiedendo aiuto per rimuovere ogni tensione e contesa, tessendo il perdono, la concordia, l’amore: “FATE AGLI ALTRI QUELLO CHE VOLETE SIA FATTO A VOI” (Mt.7,12-14.)
Sono certa che tutti desideriamo la pace, vivere nella serenità e nell’accordo, ma è possibile o è solo un sogno irraggiungibile? Ascoltiamo alcune esperienze di chi ha condiviso la sua storia venendo al nostro Centro Comboni Samaritans di Gulu (Uganda). Persone e giovani che hanno sofferto soprusi, violenza, rifiuto. Come hanno cercato di superare almeno in parte tutto questo?
ERIC, ho 21 anni, sono nato nella foresta perché mia madre fu rapita dal suo villaggio da un gruppo di ribelli famosi in Uganda per la loro brutalità, aveva 13 anni. Riuscì a fuggire dopo cinque anni di permanenza con loro, mi mise sulle sue spalle perché ero piccolo, avevo solo 4 anni circa. Ricordo la paura d’essere inseguiti e ripresi, ogni fuga veniva punita dai ribelli con la morte. Ci vollero due giorni e una notte prima di scorgere un villaggio dove mia madre si diresse chiedendo aiuto. La gente sapeva da dove provenivamo, ormai abituata ad accogliere fuggitivi, informò il capo villaggio, ci diedero del cibo e una stuoia dove riposare, eravamo esausti. Il giorno dopo i soldati governativi, avvisati della nostra presenza, vennero a prelevarci e portarci al villaggio nativo di mia madre; venne accolta dai fratelli con gioia, ma non fu così per me, dissero a mia madre che non c’era posto per un figlio nato dai ribelli, doveva portarlo alla famiglia nativa del padre. Ma a chi la responsabilità della paternità? Molti i ribelli che a turno abusavano di queste ragazze rapite. Mia madre mi rassicurò che mai mi avrebbe abbandonato, chiese solo qualche giorno per poter trovare una sistemazione alternativa. Trovò una capanna alla periferia della città di Gulu, le venne chiesto un contributo mensile per abitarci. Le fu suggerito di venire al nostro Centro per chiedere un aiuto, poté così soddisfare la richiesta della proprietaria e ricevette anche un aiuto di cibo. Mia madre si recava ogni giorno in città per fare piccoli lavori che erano richiesti ed io la seguivo, la paga era una manciata di fagioli e della farina per la polenta, altre volte erano 2 o 3000 scellini ugandesi, pari a 70 centesimi di Euro. Qualcuno mi allungava una caramella, un mandasi (frittella locale), finché pian piano mia madre riusci a racimolare dei soldi per mandarmi a scuola, frequentai fino alla quinta elementare, poi la tassa scolastica divenne troppo alta e rimasi a casa ad aiutare la mamma. Un giorno uno zio, proprio quello che mi aveva rifiutato, ci venne a chiedere di ospitare uno dei suoi figli perché potesse frequentare un corso in città, mia madre tacque, forse ripensando al passato, disse che ne avrebbe parlato con me, io ero a zappare il terreno per una famiglia. Al mio rientro la mamma mi presentò la richiesta, discutemmo per un po’ ma poi decidemmo che dovevamo chiudere una porta a ciò che era avvenuto e ricostruire il legame con la famiglia materna, era l’unico modo per un presente e futuro di pace, il perdono. Lo scorso anno un impiegato del Comboni Samaritans disse a mia madre che Sr. Giovanna voleva vederci entrambi. Mi venne offerta la frequenza a un corso di 1 anno per specializzarmi in un settore, scelsi l’agricoltura. Al termine del corso il Centro mi fornì il necessario per iniziare: zappa, sementi, ecc., ora riesco a essere autonomo e vivo con mia madre e questo mio cugino con serenità. Credo che sia il dono che il Signore ci ha dato per avere scelto il perdono.
Io sono LUCY, ho 36 anni, rapita dai ribelli all’età di 12 anni, vissi con loro nella foresta per ben 8 anni, ebbi tre figli, tutti maschi. In uno scontro a fuoco tra ribelli e forze governative un buon gruppo di noi donne e bambini fummo liberate e affidate a un’Organizzazione Caritativa che oltre all’accoglienza si occupava della nostra riabilitazione.
Rimasi in questo Centro oltre un anno con i miei bambini, partecipai ai corsi di alfabetizzazione poiché, seppure avessi completato la quinta elementare quando venni rapita, ormai ricordavo ben poco, e a un corso di taglio e cucito. Mi piaceva creare attraverso il cucito cose nuove e originali, iniziai con stoffe prettamente africane a fare borse di diverse misure e zainetti che operatori stranieri compravano con frequenza. Quando mi dissero che il periodo trascorso nel Centro era terminato e che dovevo trovare una sistemazione, non ebbi problemi a trovare un alloggio avendo messo da parte un po’ di soldi. Mi diedero una macchina da cucire e fu veramente un nuovo inizio, anche se il passato di violenze ogni tanto mi turbava e spesso mi svegliavo piangendo, dovevo parlarne con qualcuno, ma con chi? Sentivo parlare del Comboni Samaritans e un giorno decisi di andare, fu una Suora ad accogliermi e ad ascoltare il mio passato, il mio presente e la mia preoccupazione per il futuro dei miei figli. Trovai subito un’amica, ci sentimmo in sintonia, anche lei comprava molte delle cose che cucivo per offrirle alle persone che venivano a visitare il Centro. Un giorno condivisi con lei le condizioni di precarietà nella quali molte donne che avevano vissuto la mia stessa esperienza si trovavano e la fatica per superare il trauma e il rifiuto. Mi fece una proposta: uniamoci per venire loro incontro. Fu l’inizio di un’arricchente esperienza di condivisione, comunione e attiva collaborazione nell’iniziare piccole attività artigianali, che permettessero di superare le soglie di povertà e abbandono riacquistando fiducia in se stesse, e formando UNA FAMIGLIA CHE ABBIAMO CHIAMATO “WANEN ANYIM” (Acholi) che significa “Guardiamo in avanti”. Sono oltre 300 le donne che sia io che Sr. Giovanna seguiamo e aumenteranno tenendo presente che le statistiche governative parlano di oltre 30.000 ragazzine/ragazzini rapiti in 22 anni dai ribelli. Questo impegno lo considero un dono da parte del Signore, mi ha aiutato a superare il mio sentirmi una fallita, il mio risentimento verso tutti per quanto vissuto, il mio cuore ha ripreso a battere per impegnarmi a creare più solidarietà e rispetto reciproco.
Al termine del 2023, sento di poter dire GRAZIE al Signore per avermi nuovamente arricchito con la presenza di coloro che per varie realtà di emarginazione hanno condiviso con me il vissuto. Mi hanno permesso di camminare accanto nell’accoglienza, fiducia e stima reciproca cercando di lasciare da parte il giudizio, chiedendo a LUI di migliorare sempre più il mio ascolto, intensificare la mia preghiera, comprendere assieme a loro il modo migliore per lenire le ferite e iniziare un nuovo percorso. UN MERITATO GRAZIE a tutti coloro sempre pronti ad accogliere le mie richieste di aiuto, al clima di amicizia che ci lega ormai da anni, al vostro sostegno concreto anche nella preghiera, so di non essere sola, continuerò a importunarvi anche nel 2024, ma è anche a vostro beneficio perché il Signore ricompensa con il centuplo.
UN AUGURIO PER UN SANTO NATALE CHE CI ACCOMUNI NELL’ESSERE SEGNO DI FRATERNITÀ SUO SEGNO DI AMORE E DI PACE.
UN AUGURIO AFFINCHÉ IL NUOVO ANNO 2024 INIZI NELLA PACE E CI IMPEGNI A COSTRUIRE UN MONDO PIÙ GIUSTO E SERENO.
Con affetto, BUON NATALE E BUON ANNO 2024.
Suor Giovanna Calabria
Suora Missionaria Comboniana